Catechesi ai Quaresimali d’arte, l’Arcivescovo di Udine: «Teniamo lo sguardo spalancato sui troppi poveri e sofferenti»

«Alla fine della nostra giornata terrena il valore di tutta la nostra esistenza sarà misurato da Dio  sulle opere di carità, piccole o grandi, che avremo realizzato». Un richiamo forte quello dell’arcivescovo di Udine, mons. Andrea Bruno Mazzocato, nella catechesi pronunciata in occasione del secondo Quaresimale d’arte – domenica 1° marzo in Cattedrale – alla Carità che si fa carne, gesto concreto di attenzione verso il prossimo. «L’amore vero si fa carne» era infatti il titolo della seconda tappa dei quaresimali caratterizzata dalla lettura del Vangelo di Matteo (Mt 25,31-46).

«Un cristiano – ha sottolineato l’Arcivescovo – non pretende di aver da sé la forza di sostenere i fratelli che soffrono; con umiltà può, invece, dire loro: “Non sono più buono e generoso di te, ma ho ricevuto misericordia dal Signore e, come posso, la dono a te. Nel mio cuore Gesù ha riversato l’amore che ha nel suo Sacro Cuore; così mi ha guarito dall’egoismo e mi ha reso capace di voler bene anche a te. Per questo ringraziamo assieme il Signore per l’amore che ci dona”. Questa è l’umiltà che ha sostenuto i tanti santi della carità nei quali l’amore ricevuto da Gesù ha portato frutti straordinari e fatto nascere opere geniali a favore dei poveri e dei sofferenti. Anche in noi l’amore che riceviamo da Gesù, grazie allo Spirito Santo, può portare frutti».

Mons. Mazzocato ha poi ricordato le sette opere di carità indicate da Gesù: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti. «Le opere di carità corporale – ha evidenziato l’Arcivescovo – ci consolano perché non chiedono azioni difficili che solo pochi sarebbero in grado di realizzare, ma sette forme di carità possibili a tutti». Non solo, «ci invitano ancora all’umiltà perché ci aprono ad un orizzonte di bisogni che superano ogni nostra possibilità di rispondere adeguatamente. Esse ci mettono davanti milioni e milioni di persone, spesso bambini, che muoiono di fame, che non hanno vestiti per difendersi, che non hanno nessuno che li soccorre quando sono malati». Di fronte a questo «una reazione non infrequente è quella di tapparci occhi e orecchi per non sentire i gemiti e non vedere certi volti consumati dal bisogno», ma la reazione del cristiano – ha sottolineato  mons. Mazzocato – «è quella di tenere lo sguardo spalancato sui troppi poveri e sofferenti». Infine, «Le opere di misericordia corporale – ha concluso l’Arcivescovo – mostrano la caratteristica propria dell’amore cristiano. Non è solo il vangelo che invita ad aiutare i poveri e i sofferenti. Un atteggiamento di filantropia e di compassione è raccomandato da tutte le religioni e filosofie.  Solo Gesù, però, dice: “Quando hai dato da mangiare ad un povero, hai dato da mangiare a me”. Il cristiano aiuta chi soffre perché in quel fratello debole vede il suo Signore che lo aspetta e misura la generosità del suo cuore». 

Di seguito il testo integrale della catechesi pronunciata dall’Arcicescovo.

«Terminavo la catechesi quaresimale di domenica scorsa con un richiamo all’umiltà. Un cristiano non pretende di aver da sé la forza di sostenere i fratelli che soffrono; con umiltà può, invece, dire loro: “Non sono più buono e generoso di te, ma ho ricevuto misericordia dal Signore e, come posso, la dono a te. Nel mio cuore Gesù ha riversato l’amore che ha nel suo Sacro Cuore; così mi ha guarito dall’egoismo e mi ha reso capace di voler bene anche a te. Per questo ringraziamo assieme il Signore per l’amore che ci dona”.

Questa è l’umiltà che ha sostenuto i tanti santi della carità nei quali l’amore ricevuto da Gesù ha portato frutti straordinari e fatto nascere opere geniali a favore dei poveri e dei sofferenti.

Anche in noi l’amore che riceviamo da Gesù, grazie allo Spirito Santo, può portare frutti. Alla fine della nostra giornata terrena il valore di tutta la nostra esistenza sarà misurato da Dio  sulle opere di carità, piccole o grandi, che avremo realizzato, come abbiamo appena sentito leggere dal vangelo di Matteo.

Tra queste opere Gesù stesso ne indica sette che la tradizione cristiana ha chiamato “opere di misericordia corporali”.  Se le compiamo, alla fine della vita Gesù risorto ci accoglierà dicendo: “Ogni volta che hai fatto queste cose ad uno dei miei fratelli più piccolo, l’hai fatto a me. Vieni benedetto del Padre mio”.

Ricordo queste opere di misericordia: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti. 

Su di esse faccio tre brevi commenti.

1. Le opere di misericordia corporale ci consolano perché non chiedono azioni difficili che solo pochi sarebbero in grado di realizzare, ma sette forme di carità possibili a tutti. Ognuno può privarsi di un po’ di cibo o di un vestito, essere vicino a persone ammalate, partecipare alla S. Messa di esequie per un defunto. Con queste opere semplici possiamo arricchire la nostra vita di frutti di carità i quali saranno graditi al Signore quando lo incontreremo nel momento della morte. Accanto a lui ci aspetteranno i poveri che abbiamo aiutato e che intercederanno a nostro favore: “Procuratevi amici con la disonesta ricchezza perché, quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne” ( Lc 16,9).  

2. Le opere di misericordia corporale ci invitano ancora all’umiltà perché ci aprono ad un orizzonte di bisogni che superano ogni nostra possibilità di rispondere adeguatamente. Esse ci mettono davanti milioni e milioni di persone, spesso bambini, che muoiono di fame, che non hanno vestiti per difendersi, che non hanno nessuno che li soccorre quando sono malati. Cosa fare di fronte a simili bisogni, spesso frutto di gravi ingiustizie create dalle nostre società del benessere? Cosa ci chiede Gesù? Come potremo rispondere di fronte a lui?

Una reazione non infrequente è quella di tapparci occhi e orecchi per non sentire i gemiti e non vedere certi volti consumati dal bisogno. Di conseguenza, la coscienza, un po’ alla volta, rischia di fasciarsi di quella indifferenza, denunciata con forza da Papa Francesco nel suo messaggio per la quaresima. 

La reazione del cristiano, invece, è quella di tenere lo sguardo spalancato sui troppi poveri e sofferenti. Di fronte a loro riconosciamo, con sincera umiltà, di fare poco sia perché non abbiamo molti mezzi, sia perché abbiamo poco coraggio e generosità. Sempre con umiltà, però facciamo quel poco che possiamo anche se sembra una goccia nell’oceano. E con umiltà preghiamo lo Spirito Santo perché ci liberi dalla tentazione dell’indifferenza e renda il nostro cuore più generoso verso chi invoca aiuto.

3. Le opere di misericordia corporale mostrano la caratteristica propria dell’amore cristiano. Non è solo il vangelo che invita ad aiutare i poveri e i sofferenti. Un atteggiamento di filantropia e di compassione è raccomandato da tutte le religioni e filosofie. 

Solo Gesù, però, dice: “Quando hai dato da mangiare ad un povero, hai dato da mangiare a me”. Il cristiano aiuta chi soffre perché in quel fratello debole vede il suo Signore che lo aspetta e misura la generosità del suo cuore. 

E’ questa fede che ha fatto sorgere tutti i grandi santi della carità. Abbiamo ascoltato il celebre episodio di S. Martino che nel povero ignudo, a cui ha donato metà del mantello, gli si rivela il volto di Gesù che dice agli angeli: “Martino, che è ancora un catecumeno, mi ha coperto con questa veste”. Possiamo ricordare S. Camillo De Lellis, il santo degli incurabili, che con i suoi compagni fece il voto di essere “servi dei loro padroni, gli infermi, per tutta la vita” perché nei poveri vedeva il suo Signore, Gesù. Così, Madre Teresa di Calcutta, stringeva tra le braccia i moribondi distesi lungo le strade perché in loro vedeva e accoglieva Gesù.

L’autore della lettera agli Ebrei, con una straordinaria intuizione, dice che Gesù, il Figlio di Dio si è fatto uomo come noi e “non si vergogna di chiamarci fratelli”. Non si vergogna di essere fratello dell’affamato, del malato ridotto all’estrema debolezza, del carcerato che ha rovinato se stesso. Quando li incontriamo abbiamo davanti un fratello che Gesù ama e nel quale si fa presente. Gli dona la sua dignità grazie alla quale merita essere accolto e servito.

Alla fine della vita ci aspetteranno i poveri che abbiamo aiutato e tutti avranno il volto di Gesù».

 

 

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